Vuoi giocare, ragazzino?steemCreated with Sketch.

in #ita5 years ago (edited)

Questo racconto è stato scritto per partecipare a Theneverendingcontest n° 53 S3-P1-I2 di @storychain sulla base delle indicazioni del vincitore precedente @sbarandelli

Tema: Perdizione
Ambientazione: Sala giochi

98- Sala giochi.jpg
CC0 Public Domain

A cinque anni era quello che le maestre chiamavano, senza troppi fronzoli, “un bambino terribile”.
A otto anni aveva già dato fuoco ai capelli della sorella di tre anni perché, dopo l’ennesimo trapianto di testa fra le sue bambole e dinosauri, zombie e altri giocattoli non sempre dotati di un apice, lei aveva singhiozzato per un pomeriggio e lui aveva subìto l’ennesima punizione.
A dieci anni, a detta dei vicini, avrebbe certo fatto carriera come criminale, dato che a chi suonava il campanello la notte, a chi aveva rotto i vetri a pallonate e a chi aveva bagnato i vestiti di pipì canticchiando, dal terrazzo del condominio, col pisellino al vento.
Fabio non era un bambino che passava inosservato, e ovunque andasse lasciava il segno, o a volte la cicatrice o cocci rotti. Passerà, diceva il papà, che tanto lo vedeva solo un giorno o due ogni quindici, passando il resto del tempo a lavoro sul suo camion in giro per l’Italia. Passerà, diceva la mamma, che vedeva il suo bambino come la cosa più perfetta al mondo e non immaginava certo che potesse avere dei difetti.

"Vuoi giocare, ragazzino?" gli aveva chiesto il padre guardandolo scartare quel regalo. Aveva dodici anni quando per Natale ricevette la sua prima consolle di videogiochi, una Xbox con oltre 50 giochi che il papà aveva comprato di seconda mano da un cliente a un prezzo incredibile perché il figlio ne aveva un modello più nuovo: vedrai come si calmerà, con questa! Gli aveva assicurato il cliente, al quale era stato accennato della vivacità del ragazzino.
Sembrò il miracolo del Natale quando, ricevuto il dono, la famiglia non dovette recarsi al pronto soccorso o a riparare danni e chiedere scusa a qualcuno fino all’Epifania. E anche dopo le cose “migliorarono”: lunghissime ore intere di silenzio ininterrotto; non lo si poteva staccare dalla tv, però, o le reazioni diventavano ancor più aggressive. A scuola Fabio si addormentava spesso in classe perché trascorreva le notti a giocare senza che la madre avesse la forza di dare un limite a quel comportamento. Gli insegnanti, peraltro, traendo finalmente un po’ di respiro dai suoi pestiferi comportamenti, si guardavano bene dal disturbarlo svegliandolo, desiderando solo arrivare alla fine dell’anno scolastico e non vederlo mai più.

Con l’adolescenza arrivarono i primi amori, i primi ardori, le uscite con gli amici, e Fabio alternava le ore trascorse alla consolle alle notti brave insieme a un gruppo di ragazzi più grandi di lui che lo avevano preso per mascotte e giullare (i coetanei erano troppo noiosi e pieni di limiti, dovendo rispettare tutte quelle regole genitoriali che lui, invece, non aveva mai avuto). Fu con loro che entrò per la prima volta in sala giochi, un luogo buio ricavato fra i pilastri del pianterreno di un palazzo. Al centro, il verde del tavolo da biliardo. Ai lati, una decina di giochi in auge almeno cinque anni prima. In un’altra stanza, tavoli da gioco per il poker, separati dal resto da una fila di macchinette mangiasoldi.
"Vuoi giocare, ragazzino?", gli chiesero i compagni di uscite.
Fabio si sentiva in paradiso, e coi pochi spiccioli della paghetta quasi tutta già spesa iniziò a provare ogni gioco che si trovava a tiro, incitato dai compagni di combriccola che si divertivano a vedere quel che “il marmocchio” combinava.
Da quel momento in poi, la vecchia Xbox rimase abbandonata e spenta, il denaro non più speso in giochi nuovi ma in sala giochi. Ogni tanto a casa spariva qualche spicciolo, ma la mamma chiudeva un occhio, felice che finalmente "il ragazzino uscisse con gli amici". Non poteva certo immaginare (e non voleva nemmeno saperlo) che in realtà si andasse a chiudere in sala giochi, bruciando un livello dietro l’altro, una moneta dietro l’altra.

Il tempo passava, e gli amici di un tempo, ormai quasi adulti, avevano tutti da fare, chi con l’università, chi col lavoro. Fabio invece doveva ancora finire la scuola, ma era già stato bocciato due volte e non aveva più voglia di leggere una sola pagina scritta in vita sua.
“Vieni a lavorare per me” gli propose un giorno il proprietario della sala giochi, “finito il tuo orario di lavoro puoi giocare quanto vuoi”. E così Fabio iniziò ad aiutare il proprietario con il bancone degli alcolici. Lavorare in sala giochi, però, gli fece conoscere qualcosa di molto più affascinante dei videogiochi: quei tavoli dietro le macchinette mangiasoldi, di cui mai si era preso cura, dopo una certa ora della sera si riempivano di uomini che scommettevano al poker finanche la camicia che indossavano.
“Vuoi giocare, ragazzino?” chiese un giorno uno di loro mentre Fabio li guardava dopo aver finito il suo turno di lavoro. Per l'ennesima volta lo sventurato rispose.

Fu il fornaio a ritrovarlo un giorno, nelle prime ore del mattino, quando la notte è più buia e sembra che l’alba non arriverà mai più. Era un grumo di carne e stracci che appena respirava vicino ai bidoni dell’immondizia. Chiamò l’ambulanza che lo portò via subito dopo, lasciando nel posto in cui giaceva una larga chiazza di vomito, urina e sangue. La luce del mattino rischiarando il muro dove Fabio rantolava quasi esanime illuminò la scritta “Paga i tuoi debiti”, certo un undicesimo comandamento non scritto.

Dopo tre settimane di terapia intensiva e oltre un mese di degenza, Fabio tornò a casa. Fra il coma e il trauma cranico, ricordava appena la sua famiglia, poco del suo passato e ancor meno del suo futuro. Chi lo aveva conosciuto sapeva che del vecchio Fabio non era rimasto nulla anche senza aver parlato coi dottori, i quali, pur senza riuscire a farsi capire del tutto, avevano provato a spiegare alla famiglia del ragazzo che le parti del cervello colpite dai traumi gli avrebbero cambiato il carattere. “In peggio?” aveva chiesto terrorizzata la madre. “Non lo sappiamo ancora”, avevano risposto i luminari all’oscuro.

Sort:  

Non sono mai stato completamente immune dal perverso e coinvolgente fascino del demone del gioco, mi piace giocare, inutile negarlo e inutile negarmelo, ma nella vita le cose cambiano, perché devi cercare sempre di tenere sotto controllo questo attaccamento al gioco che può portare a conseguenze a volte disastrose, come quelle che hai eccellentemente evidenziato tu, cara @piumadoro, ci si rovina al gioco, se il demone prende il sopravvento è finita, ti trovi in un attimo sull'orlo di un baratro, e dal grande salto puoi sopravvivere, ma devi essere bravo ad efferrare le poche ancore di salvezza che si trovano lungo la cadute negli inferi del gioco, perché la risalita può essere infinita e difficilissima.

Complimenti per la precisa e riuscita calibrazione di questo post, stappa alla tua salute questa meritata !BEER

!trdo

Ciao Maddy! Grazie per il commento e il sostegno che non manca mai nonostante la mia "latitanza" da Steemit!
Hai ragione, il gioco può diventare un vortice fatale, una spirale che ti risucchia trascinando insieme a te anche tutti i tuoi cari. Oggi più che mai questa grave dipendenza sta distruggendo tante vite...
Detto ciò, una sana partitella non fa male a nessuno, l'importante è sapere quando fermarsi e stabilire dei limiti per non arrivare a passi di cui poi non ci si debba pentire.

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anche io sono presa dal demone del gioco...in particolare del gioca da biliardo che letteralmente adoro e per il quale occorrono buone nozioni di fisica

... quando ti prende, ti prende!

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