E lo chiamano turn over..

in #society5 years ago

Chi vive la vita aziendale, soprattutto se le aziende nelle quali si lavora superano le centinaia di dipendenti o sono configurabili come multinazionali, conoscerà benissimo il concetto di turnover del personale.

In parole povere si intende per turnover il ricambio del personale interno all'azienda con dipendenti che "escono" e dipendenti che "entrano" con una certa frequenza.

Il turnover può generare ricambio senza perdere in qualità del personale e senza squilibrare numericamente la composizione dei team e del personale aziendale ma spesso esso può tradursi in un'emorragia di competenze e risorse con gravi rischi per la salute aziendale.

Si distinguono infatti 2 tipi di turnover: quello fisiologico e quello patologico.

Per turnover fisiologico si intende la capacità dell'azienda di far circolare le risorse attraverso assunzioni che seguono a dimissioni, licenziamenti o pensionamenti senza però pregiudicare la continuità produttiva dell'azienda grazie ad una capacità di non perdere in competenze. In questo caso la struttura organizzativa e la produttività dell'azienda non ne risentono ed i singoli individui riescono a ricollocarsi nel mercato senza alcun problema o forzatura.

Per turnover patologico, invece, si intende un flusso negativo di risorse umane aldifuori della realtà aziendale. Le persone tendono a fuoriuscire dall'azienda per insoddisfazione e mancanza di opportunità e l'azienda non riesce a sua volta a sostituirle con persone altrettanto valide e skillate. Un ricambio patologico è spesso sintomo di una errata politica aziendale.

In Italia, ma non solo, a causa del lavoro sempre più precario e a causa della scarsa progettualità che le aziende sembrano dimostrare il turnover è una parola sempre più comune ed il timore che spesso accompagna questo continuo ricambio è che esso sia sempre più spesso di natura patologica.

I dipendenti, insomma, cercano sempre più spesso fortuna altrove e sempre più spesso le aziende non sono in grado di trattenerli e peggio ancora non sono in grado di prevenire la fuoriuscita di risorse con adeguati incentivi economici e professionali.

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La crescita, soprattutto per i giovani, non è mai garantita ed anzi è vista come una chimera.

Inizialmente tutti i neolareauti o neoassunti tendono a "fidarsi" delle promesse lavorative dei propri superiori, salvo poi accorgersi che dalle promesse ai fatti non si passa praticamente mai.

Manca la formazione, manca la visione, manca l'organicità di progetti che mettano al centro la persona, il dipendente.

Inutile meravigliarsi, dunque, se le risorse scappano e le aziende perdono di capitale umano.

Sempre più spesso si assiste alla disequazione che vede persone competenti ed esperte dimettersi per disperazione ed essere rimpiazzate (quando capita) con personale junior o poco qualificato. La coperta è corta e nel tempo i gruppi di lavoro ed in generale i team di progetto ne risentono con conseguente insoddisfazione dell'eventuale cliente ed in generale di tutte le componenti in gioco.

Un altro aspetto che spesso si tende a trascurare è quello umano.

Ad oggi il mondo aziendale è fluidissimo. Chi entra in un team di lavoro sa che entro 2-3 anni quel gruppo sarà smantellato con conseguente perdita di punti di riferimento per il singolo individuo e di coesione per il team.

Se per chi parte il trauma personale è alto ma giustificato da una migrazione verso società e luoghi di maggiore interesse (altrimenti perchè cambiare?) per chi resta il trauma è doppio in quanto oltre alla perdita di figure professionali di sicuro affidamento si va incontro ad una totale mancanza di legami personali.

Vivere una realtà aziendale di questo tipo risulta difficile. 

Il lavoro occupa gran parte della giornata lavorativa di ogni persona. Se, infatti, consideriamo l'impegno lavorativo un qualcosa che va dal suono della sveglia al ritorno fra le mure domestiche dobbiamo calcolare circa 10 ore di media (per i più fortunati) lontano dalle mura di casa e dagli affetti.

Vivere quelle 10 ore senza persone con le quali condividere esperienze, chiacchierate o anche solo un caffè risulta alla lunga sfibrante se non addirittura alienante.

L'ambiente di lavoro ne perde in umanità ma anche in efficienza con sempre più tempo che viene dedicato ai famosi KT per passaggi di consegne in uscita ed in entrata che risultano sempre di più all'ordine del giorno.

La fidelizzazione con clienti e fornitori, inoltre, ne soffre, risultando completamente indebolita.

In una società sempre più fluida le società stesse sembrano esserlo sempre più.

Si dirà che il lavoro è il lavoro e i legami personali contano zero, l'empatia conta zero, la fiducia conta zero purchè si produca sempre più.

Il rapporto fra ore impiegate e produzione è però sempre più basso in determinate situazioni se è vero che le competenze si abbassano, il numero di risorse si abbassa e il numero di ore dedicate alle proprie attività si riduce proporzionalmente alle "dipartite" dei dipendenti più skillati.

In una repubblica fondata sul lavoro suona strano assistere a certi fenomeni, con una guerra sui numeri degli occupati e disoccupati sempre più assurda e forte si rischia che il capitale umano venga sempre più messo all'angolo, con buona pace di noi poveri dipendenti pronti a girare ai tornelli come carrelli della spesa.

Si tratta di precariato ma loro lo chiamano turnover..




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Concordo praticamente su tutto.
E mi trovo proprio in questo momento in quella situazione : dopo quasi 3 anni, dopo aver trovato colleghi, amici, una famiglia nel posto di lavoro, mi ritrovo Senza lavoro, a dover iniziare di nuovo da un'altra parte.
Se si voleva aiutare i lavoratori, se si voleva aiutare i giovani, beh qualcosa è andato storto.

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E' cambiato tutto, ci tocca adattarci mi sa.

Non abbiamo scelta. Siamo burattini.

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