Figlio d'un temporale

in #ita6 years ago (edited)

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Una notte estiva, dapprima scossa dai cupi brontolìì del tuono… E quindi letteralmente squarciata da esplosioni elettriche, sommersa da un’ondata di pioggia rinfrescante, liberatoria. Una cataratta che fa il cielo nero e ci rende tutti prigionieri delle nostre case: cavalieri medievali che scrutano la tempestosa brughiera dalle bifore dei propri castelli.

Ecco cosa si presenta alla mia finestra quando, dopo vari giorni, torno alla tastiera del computer per – spero – intrattenervi piacevolmente con una nuova avventura nel regno del Fantastico.

Niente parrebbe più adatto a una divagazione gotica e tenebrosa, niente richiama con più esplicita ostentazione quell’immaginario popolato di abbazie abbandonate, cimiteri di campagna e spettrali presenze che tanto cinema (a ancor più letteratura) ci ha lasciato in eredità. Ma…

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…Mi ero ripromesso da tempo di portarvi altrove e credo che valga la pena di tener fede a questo proposito per almeno due motivi. Il primo è che sempre c’è – e sempre ci sarà, finché sarò in questa valle di lacrime – il tempo e l’opportunità di recarsi in quelle lande nebbiose. Il secondo è che, a ben guardare, le forme del Gotico sono tante, sfumate e dissimulate attraverso mille filtri di linguaggio e di pensiero, e sono dunque lungi dall’esaurirsi in un’esibizione teatral-farsesca di manieri e pipistrelli. Là dove andremo, in effetti, c’è molto più Gotico di quanto si sia soliti pensare, perché è un luogo remoto, pieno d’inquietudine e incertezza, brividi crudeli e presenze sfuggenti, è infestato dalla solitudine e dall’aleggiare malinconico di domande che non troveranno mai risposta…
“Nei ricevitori si susseguivano gli scricchiolii delle scariche atmosferiche. In sottofondo c’era un ronzio. Così profondo e basso che pareva la voce stessa del pianeta. Il cielo arancione impallidì nel portellino. Il vetro si oscurò; istintivamente mi ritrassi, per quanto lo consentivano le serpentine pneumatiche, prima di capire, in un attimo, che erano nubi…”.
Là dove ci stiamo recando – dove, a dire il vero, stiamo già atterrando – è un recesso cupo e decadente, una stazione orbitante lontana milioni di chilometri da tutto ciò che conoscete. Uno spazio perduto, che, giustappunto, ci appare quasi come fosse un cadente castello semi abbandonato. In quei grigi corridoi di metallo e plastica ciondolano due scienziati ormai pressoché pazzi e quelle asettiche stanze sono talvolta percorse da fantasmi. O meglio, da creature tanto concrete quanto impossibili, abomini di carne e spirito nati dalle ombre della memoria e del rimpianto… Quel luogo – ma l’avrete già capito – altro non è che il laboratorio di ricerca che gli umani hanno posto sull’orlo dell’Enigma assoluto, sospeso sull’oceano inarrestabile del Nulla, a poche spanne dalla superficie dell’incredibile pianeta vivente… del pianeta Solaris.

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Ebbene sì, lo confesso: sono un privilegiato. Ovvero sono uno dei pochi (o almeno dei non-tantissimi) che possono rigirarsi tra le dita la prima edizione italiana di Solaris, il romanzo-capolavoro di Stanislav Lem. La sovracoperta è un po’ sgualcita e le pagine sono incorniciate da un inconfondibile alone giallo pallido, ma – forse proprio per questo – aprirlo, sfogliarlo e gustarlo è un piacere tanto sottile quanto insuperabile. “In libris futura prevenio… Nei libri prevedo il futuro”, scriveva l’erudito Riccardo da Bury in quel monumento alla bibliomania che è il suo Philobiblon (1344), ed è una sentenza quanto mai profetica. Nei libri (anche i più remoti nel tempo) è sempre contenuta una possibilità di futuro, anche e soprattutto perché ci parlano del passato da cui vengono. In questo caso il “mio” romanzo parla anche di un’eccezionale esperienza editoriale che oggi sopravvive, come un guscio vuoto, solo nel nome (Editrice Nord), ma che è stata a suo tempo – a partire dal 1970 e fino alla fine dei Novanta – uno dei più importanti vettori di diffusione del virus fantascientifico in italia… Bando alle nostalgie, comunque. Se vi racconto tutto ciò è per trasportarvi in quell’eccentricità spaziotemporale che un’introduzione redatta nel 1973 può generare nel nostro qui-e-ora: “Dopo 25 anni di attività scientifica e letteraria, è esploso ufficialmente il caso Stanislav Lem”, così esordisce il curatore del volume Renato Prinzhofer; dal suo punto di vista, infatti, lo scrittore polacco è una novità, una scoperta che il pubblico italiano può finalmente sperimentare anche perché, “nel ’72, in concomitanza con la fortuna di Lem in Occidente, ma indipendentemente da essa, fu presentato al Festival di Cannes il film sovietico Solaris (…) che ebbe uno straordinario successo di pubblico e di critica…”. Erano i primi passi di una tortuosa strada, lungo la quale l’editoria del nostro paese avrebbe un poco alla volta esplorato il potenziale commerciale di quel semisconosciuto narratore di Leopoli per poi, dopo averlo esaurito, lasciarlo scivolare lentamente nell’oblio. Oggi Lem – a dispetto delle decine di milioni di copie che ha venduto in tutto il mondo – è generalmente considerato un “classico” (eufemismo che sta per poco ristampato e pochissimo letto) e, della sua vastissima produzione, sì e no una decina di titoli sono reperibili sugli scaffali delle librerie nostrane.

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“La scoperta di Solaris avvenne cento anni prima della mia nascita. Il pianeta gira attorno a due soli, uno azzurro e uno rosso…”. Entriamo nel vivo. Lo psicologo Chris Kelvin è la nostra guida negli angusti spazi della stazione, ma è una guida non meno spaesata di noi. Quando giunge sul posto, nessuno viene ad accoglierlo. Tutto è deserto e immerso in un sinistro silenzio, disordine e sporcizia regnano ovunque. Passo dopo passo, Kelvin incontra gli sfuggenti Snaut e Sartorius (soli superstiti in quel cimitero tecnologico), apprende che il terzo membro dell’equipaggio (Gibarian) si è iniettato una dose mortale di Pernodal e che lì dentro, insieme ai due sopravvissuti, ci sono delle “cose” che vengono chiamate Ospiti. Sono simulacri di esseri umani, allucinazioni, spettri… o corpi reali, realmente vivi, coscienti di se stessi? Ciò che sembra essere chiaro è che vengono dal passato di chi li incontra, proprio come la bella Harey, l’amata Harey, che Kelvin ha visto morire suicida anni prima e che ora è lì, accanto a lui nel letto, come se nulla fosse mai accaduto. Gli Ospiti – si direbbe – sono emanazioni di Solaris, del suo enorme, enigmatico oceano colloidale e violaceo. È un organismo? Qualcuno crede di sì, al punto da avergli attribuito una nomenclatura zoologica – tipo Polytheria, ordine Syncytialia, classe Metamorpha; altri lo ritengono viceversa una mera anomalia geologica. Ma nessuno riesce a catturarne realmente l’essenza, a ricevere da esso una qualsiasi forma di risposta comprensibile. Nessuno riesce a ricondurre la sua incessante, plastica attività creativa a uno schema interpretabile e coerente. “La mediocrità e il genio rimanevano del pari interdetti di fronte alle metamorfosi solariane”

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Sottoscrivere quanto scrisse Prinzhofer – sullo straordinario successo del Solaris di Andrei Tarkovski (1971) – è possibile solo a metà. Se è vero che vasti settori della critica lo ritennero un masterpiece imperdibile, è viceversa davvero difficile immaginare che incontenibili folle di spettatori entusiasti si siano accalcate davanti ai cinema per vederlo. Sorvolando sul bricolage di taglio & cucito che il distributore italiano mise in atto sulla pellicola (rimuovendo più di quaranta minuti di girato) e cercando di dimenticare il grottesco doppiaggio (affidato a non professionisti) che gli fu affibbiato… il film è comunque caratterizzato da una grammatica cinematografica che non ne rende certo leggera la visione. Guidato da una passione per la composizione pittorica, la carrellata “a passo di lumaca” e il piano sequenza interminabile, nonché dalla ponderata – e talvolta decisamente ingessata e autocompiaciuta – gestione dei tempi drammatici (minuti e minuti di silenzio possono separare una battuta dalla seguente), Tarkovski costruisce di fatto un racconto che, oggi, può apparire insostenibilmente pesante, lento, indigesto. Il che, sia chiaro, non vuole svilirne la rilevanza artistica, né disprezzarne il portato filosofico… Non sempre (per quanto sia di moda raccontare il contrario) è possibile esprimere in termini dinamicoadrenalinici qualcosa di veramente importante, e, forse, in questa nostra età maniacale, la lentezza dovrebbe tornare a essere una virtù…

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In ogni caso, appare, da questo punto di vista, come una sorta di curioso lapsus freudiano che l’autorevole Dizionario dei Film Il Mereghetti abbia voluto attribuire un “ritmo soporifero” al pur insignificante remake di Steven Soderbergh (2002), che se confrontato con l’originale sovietico parrebbe scatenato quanto un indemoniato morso da una tarantola fatta di cocaina.
E qui devo fermarmi. Non certo perché non abbia più nulla da dirvi, anzi… Ma solo perché, in materia di lentezza e sopore, non vorrei abusare della vostra pazienza. Torneremo ancora, spero, a fluttuare sulle onde dell’irrisolvibile mistero solariano… Lo faremo insieme, durante la prossima notte di tempesta.
Grazie a tutti.

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Complimenti @gianmaria, hai scritto davvero un ottimo post, in grado di suscitare curiosità e interesse in chi legge. Non conoscevo Solaris, ma a quanto dici varrebbe la pena leggere il libro piuttosto che guardare il film :-)

Cara @rosemery, grazie! E' un grande piacere scoprire che le proprie "antiche" passioni possono divenire le nuove passioni di qualcun altro... Sì, in tutta franchezza credo che il romanzo abbia delle qualità che anche Tarkovski non è riuscito a catturare. E', ancora oggi, una narrazione che non lascia indifferenti, per cui... buona lettura! :-)

Grazie per il bel post. Corro a cercare il volume di Lem!

Grazie a te @grendelorr. Ne vale la pena, garantito :-)

congratulazioni per l'ottimo post @gianmaria

Grazie @nicola71... è sinceramente appagante poter scrivere così liberamente, inseguendo i propri gusti e le proprie curiosità personali. Mi piacerebbe riuscire a farlo più spesso :-)

@gianmaria, enjoy the vote!

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