Una bestemmia d'amore

in #writing5 years ago

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“Merda! Merda!” Merda!”
Era una litania.
Era un ritornello che Giovanni ripeteva ogni mezz’ora, puntuale come la morte, puntuale come l’alba e il tramonto, puntuale come l’onda del mare.
Tre volte ogni mezz’ora: “Merda! merda! merda!”

A chi gli stava vicino, dopo due o tre ore, pareva di sentire l’odore di merda, quell’odore sgradevole che ti trapana il cervello languidamente e ti rimane anche quando sei lontano dalla fonte del tanfo.

A “Villa Dolce” Giovanni era arrivato tre anni prima, portato dal figlio che non riusciva più a gestire quell’anziano uomo affetto da qualcosa di simile all’Alzheimer ma non proprio, qualcosa di simile alla demenza senile ma non proprio, qualcosa di simile alla follia sottile ma non proprio…

Giovanni, quando non cantava il suo refrain, era gioviale, senza rendersene conto, perché sorrideva agli altri ospiti, era assente senza rendersene conto, perché rimaneva fisso per minuti interi anche sul piatto della cena, era con gli occhi pieni di lacrime senza rendersene conto, perché piangeva d’improvviso.
Lo sapevano: quando incominciava a piangere era il momento della bestemmia: “Merda! merda! merda!”

La pronunciava con una smorfia nel volto come se volesse sconfiggere tutti i mali del mondo, come se volesse accusare precisamente qualcuno delle sconfitte che lo avevano sotterrato in quel mondo fuori dal mondo.

Giovanni aveva settant’anni, non parlava, non era aggressivo, si adattava alle persone che lo aiutavano nelle cose di tutti i giorni, sapeva ancora vestirsi, lavarsi, ma nessuna donna lo poteva toccare, nessuna assistente femmina poteva stargli a distanza intima.
Le uniche parole che pronunciava erano quelle tre parole tutte uguali, tutte disperate, tutte maleodoranti nella stessa misura, un urlo di protesta triplicato.

Un giorno il figlio raccontò agli assistenti, al medico, agli operatori socio-sanitari cosa era successo.
Parlava con voce rotta dal pianto perché ogni volta che raccontava la storia di suo padre, sentiva una mano che gli stringeva il cuore, che gli stritolava la serenità.
Questo figlio viveva nella stessa casa del padre e della madre, in un alloggio sopra quello dei suoi.

Mamma e papà erano vissuti insieme per cinquanta anni.
Si erano conosciuti da ragazzi e non si erano più lasciati.
Alla domenica papà portava le paste dolci alla mamma e un mazzo di rose bianche.

Papà era un uomo robusto e vivace, ironico anche se qualche volta irruento e disordinato.
Mamma era una donna tranquilla, era stata maestra di scuola elementare sino a quando era andata in pensione.
Li potevi incontrare per strada mano nella mano come due adolescenti.
Papà ogni tanto le faceva qualche scherzo improvviso, mamma rispondeva con due schiaffetti sulla testa e poi si mettevano a ridere.

Cinque anni prima mamma si era presa una brutta malattia che le aveva ridotto la capacità motoria.
Camminava lenta, qualche volta barcollava, inciampava.
Papà le stava vicino come se lei fosse un neonato.
Mamma sorrideva con quel suo sorriso chiaro e leggero e il babbo si illuminava di luce brillante.
Poi la malattia si era allontanata e i due genitori avevano ripreso i loro viaggi e le loro passeggiate seppure con cautela, perché mamma non era più così sicura di sé.

Quel giorno di due anni prima era successo il fatto, quel giorno di due anni prima la vita era cambiata per tutti e tre, quel giorno di due anni prima la signora della falce era arrivata senza pietà, senza guardare in faccia nessuno, quel giorno di due anni prima tutto il passato felice e sereno e scherzoso si era sbriciolato in un attimo, quel giorno il tempo nella testa di Giovanni si era fermato.
Non c’era stato più passato, non c’era più futuro.
La sua testa era stata intrappolata in un presente infinito e senza speranza.

Papà, quel giorno, era tornato da una scampagnata in bicicletta con gli amici.
Era stanco e sudato. Aveva abbracciato la sua cara donna.
Si era lavato, si era cambiato, si era lasciato sprofondare nella sua poltrona preferita.

Mamma stava cambiando le tende del salone, doveva salire sulla scala per togliere quelle vecchie e mettere le nuove.
Anche mamma era stanca quel giorno, molto stanca.
Aveva guardato il marito. Non voleva disturbarlo.
Ma poi aveva parlato: “Giovanni, mi aiuti a cambiare le tende? Puoi salire sulla scala, per favore?”
Giovanni senza guardarla aveva sospirato un po’ irritato : “Sono stanco morto…lo facciamo domani, dai!”
Marta, la moglie, aveva sorriso: “Stai tranquillo, ci penso io.”

Era salita sulla scala, piano piano, reggendo le tende, la gamba destra aveva ceduto, aveva perso l’equilibrio, era precipitata come una pietra e aveva battuto la testa.
Era morta sul colpo.

Giovanni era balzato dalla poltrona sentendo quel colpo secco e duro.
Aveva guardato e visto.
“Merda! Merda! Merda!”

Si era accasciato vicino alla moglie, alla sua cara Marta.
Non c’era più niente da fare.

Per Giovanni era arrivato il buio, il suo cervello si era spezzato, tutto girava nella sua testa, un frullatore aveva scompigliato la sua materia grigia, un sega circolare aveva tagliato via il senso della sua vita.

Quando il figlio era entrato di corsa nella casa, aveva trovato quel mondo spezzato.
La mamma a terra, pallida e disarticolata, il papà seduto sul pavimento accanto a lei con la sua testa posata sul suo grembo.

Il papà aveva guardato il figlio e gli aveva parlato nella sua ultima lucida consapevolezza: “Bastava che mettessi io le tende. Merda! Merda! Merda!”

Il disegno è dell'autore

Con questo racconto partecipo al Contest Theneverendingcontest n°38-S3 -P8 /1

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Stavolta ti sei buttato sul tragico...mi hai commossa.

Grazie. Ho preso ispirazione dalle vicende dei miei, anche se non è stato mio padre la causa della morte di mia mamma.

Questo è ancora più triste... mi dispiace molto. Quel senso di colpa per quanto è successo ti attanaglia e non ti abbandona mai più, anche quando sai che non è stata colpa tua.


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